Un crocevia di linguaggi. Tavole e polittici nel Levante genovese (XIV-XVI secolo)
La stagione “lombarda” nel Levante Genovese
La stagione “lombarda” nel Levante Genovese
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“Artisti ospiti”: potremmo chiamare così quelle personalità che, formatesi altrove sotto il profilo culturale e professionale, grazie alla loro migrazione mettono in comunicazione luoghi altrimenti lontani, separati da barriere statali, da scelte politiche, da interessi economici. La mobilità delle maestranze attiva il confronto tra esperienze artistiche differenti, promuove processi di trasformazione, mutando i gusti della committenza e aggiornando il linguaggio degli “artisti residenti”. Si tratta di un fenomeno che dimostra quanto la geografia artistica sia complessa e quanto espressioni come “scuola pittorica” siano definizioni di comodo che aiutano a leggere una realtà che nei fatti è più vivace e frastagliata.
A partire dal Trecento – e lo abbiamo raccontato – il territorio ligure è costellato da queste presenze “transnazionali”: toscani, emiliani e perfino costantinopolitani, che si giovano della condizione favorevole di una Genova ricca di denaro e di opportunità, dove le leggi delle corporazioni offrono uno spazio di mercato anche ai maestri forestieri. È una dinamica strutturale, non episodica, che si consolida ulteriormente nel corso del Quattrocento. A partire dalla seconda metà del secolo le presenze più significative non sono più toscane ma lombarde, complici i legami commerciali e l’inserimento della Repubblica genovese nella sfera di influenza viscontea. Per rendersene conto basta osservare la matricola dell’artis pictoriae et scutariae, la corporazione dei pittori, che nel 1481 elenca tra i primi venti iscritti solo tre genovesi, mentre la maggioranza proviene da Pavia, Milano, Como, Lodi, Alessandria e Novara.
Il Quattrocento ligure diventa così una stagione decisamente “lombarda”. Accanto a nomi di cui restano soltanto le tracce documentarie, compaiono figure di rilievo della pittura settentrionale, come Vincenzo Foppa, e artisti destinati a legare stabilmente la loro carriera alla Liguria come Carlo Braccesco, a cui forse è da ricondurre il Polittico di Borzone.
Le loro tavole e i loro affreschi raggiungono anche il Levante genovese, portando con sé quel linguaggio tagliente, attento alla resa plastica e aperto alla nota decorativa che caratterizza il primo Rinascimento lombardo.
È il caso di Lorenzo Fasolo. Originario di Pavia, quest’ultimo porta in Liguria un linguaggio solido, costruito sui modelli di Foppa e Ambrogio Bergognone, caratterizzato da una devozione composta, da un chiaroscuro misurato, da una linea spesso tagliente e da una certa attenzione per la struttura plastica delle figure. Nella riviera di Levante la bottega di Lorenzo prima e quella di suo figlio Bernardino poi, trovano un mercato particolarmente fertile. Se alcune delle loro tavole sono ormai andate perdute, il Gesù Cristo deposto dalla Croce della chiesa di San Bernardino (1508, Chiavari), la Madonna del Buon Viaggio e la Madonna delle Grazie, testimoniano tutt’oggi il successo riscosso tra Chiavari e Sestri Levante. L’influenza esercitata dai pittori pavesi si riflette anche nel Trittico di San Rufino, realizzato da un anonimo pittore che ripropone con discreta abilità i tratti salienti del linguaggio di Bernardino.
La lezione lombarda verrà raccolta e reinterpretata da un’intera generazione di pittori locali, attivi anche sul nostro territorio. Tra questi spicca il cosiddetto Maestro di San Lorenzo, personalità ancora anonima ma ormai ben delineata grazie al restauro del Polittico di San Lorenzo della parrocchiale di Cogorno (1492). L’opera conserva molti elementi della tradizione ligure – la struttura della macchina e il fondo oro a losanghe – ma li rinnova attraverso accenti chiaramente foppeschi: il basso parapetto alle spalle delle figure principali, la solida costruzione dei volti, la ricerca di profondità sono infatti debitori della pittura di Vincenzo Foppa, reinterpretata però con una sensibilità più nervosa e sottile. Le vesti, fitte e ricadenti, sono emblema di un grafismo teso; i volti si assottigliano in tratti minuti e vibranti. Alla sua mano è riconducibile anche il frammento con I santi Antonio da Padova e Bernardino con un’orante, porzione di un polittico di cui facevano parte anche altri elementi superstiti, rubati nel 1946.
La figura di Giovanni Barbagelata appare invece più saldamente ancorata alla tradizione genovese. Attivo tra il 1484 e il 1508, l’artista interpreta le suggestioni settentrionali secondo una sensibilità personale, caratterizzata da una forte plasticità e da una monumentalità severa. Le sue opere – come il Trittico di San Giovanni Battista di Casarza Ligure (1499) e il Polittico di San Ludovico della chiesa di San Giorgio Moneglia – mostrano figure robuste, modellate con un chiaroscuro contrastato che mette in evidenza una superficie quasi scultorea. Le pieghe delle vesti hanno una qualità metallica, gli orli sono taglienti, le forme sembrano costruite “a colpi d’accetta”: un tratto nitido e incisivo che conferisce ai personaggi una presenza forte, talvolta aspra.
Attraverso queste figure, la cultura figurativa lombarda attecchisce saldamente anche in riviera, si mescola con le tradizioni locali e contribuisce alla definizione dell’identità artistica del Levante genovese. Le diverse provenienze, i percorsi individuali e la fitta trama di relazioni che si crea tra città e territorio delineano così un panorama ricco, dinamico e plurale, nel quale la presenza dei “forestieri” non appare come un episodio marginale, ma come il motore di una stagione di straordinario rinnovamento.
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