Architetture e progetti ecclesiali contemporanei: la diocesi di Bolzano-Bressanone
Nuovi complessi parrocchiali: il rapporto con la città
Nuovi complessi parrocchiali: il rapporto con la città
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A seguito della trasformazione del quartiere delle Semirurali, nel quartiere Don Bosco, i nuovi edifici di case popolari devono essere assegnati ai differenti gruppi linguistici. Nel 1972 con l’introduzione del nuovo Statuto di Autonomia, si riconobbe la competenza primaria della Provincia in materia di edilizia sociale, assicurando a tutti gruppi linguistici presenti pari accesso agli alloggi sociali. Il vecchio ente, nato nel 1934, «Istituto per le case economiche e popolari di Bolzano», venne ribattezzato come «Istituto per l’edilizia abitativa agevolata», Ipeaa, e nel 1998 fu denominato «Istituto per l’edilizia sociale della Provincia di Bolzano», IESP. Su quest’area di 30 ettari sono costruiti più di 2.500 alloggi, una chiesa e altre infrastrutture per il quartiere. La presenza del nuovo complesso parrocchiale è dunque prevista dal Piano Attuativo relativo al nuovo quartiere e tale progetto ne determina anche le volumetrie. La costruzione di un nuovo complesso parrocchiale, in questa città, può avere dunque una motivazione del tutto particolare di cui la medesima amministrazione pubblica si fa carico consapevole: i fedeli di lingua tedesca necessitano di un luogo in cui costituirsi comunità, pregare, ascoltare la parola di Dio, celebrare la messa e gli altri sacramenti e sacramentali in lingua tedesca. È naturale infatti che «Le persone sentano l’esigenza di servirsi nella preghiera e nelle celebrazioni liturgiche nella loro lingua materna», «pregare secondo la “lingua del cuore”» (dal Folium Diœcesanum Bauzanense-Brixinense 1998, 3.1). La chiesa, intitolata alla Madre del Buon Consiglio, viene affidata agli architetti Zeno Abram e Heiner Schnabl e viene terminata nel 2000. Il piano urbanistico prevede che oltre agli spazi parrocchiali vi siano anche altre destinazioni d’uso per il sociale. La chiesa nell’ottica dell’amministrazione pubblica è quindi considerata una necessità e un luogo di relazione e aggregazione sociale. Se è vero che la secolarizzazione non ha risparmiato nemmeno queste aree in cui fede e vita erano rimaste saldamente fuse più a lungo che in altri territori della penisola, il ruolo sociale della chiesa non è tramontato. (1) Così come nelle valli di provenienza la chiesa è ancora il centro di riferimento della vita, nei quartieri di nuova espansione urbana, che da quelle valli attraggono abitanti, la chiesa col suo complesso parrocchiale sono ancora pianificati come “centro” dalla stessa amministrazione pubblica.
Nel nuovo quartiere Firmian, ulteriore espansione del quartiere Don Bosco oltre via Resia, il vescovo Wilhelm Egger desidera che sia costruito un centro parrocchiale. L’area non è un lotto di risulta o marginale come spesso accade con la costruzione dei recenti complessi parrocchiali, ma è urbanisticamente collocato entro una zona di servizi pubblici, sociali e commerciali: scuola elementare, asilo nido, centro comunale, centro commerciale e palazzetto. Anche in questo caso il centro parrocchiale è parte integrante della progettazione urbanistica. La Diocesi ha indetto un concorso internazionale nel 2003, vinto dall’architetto Siegfried Delueg e la chiesa viene intitolata a Madre Teresa di Calcutta. Il progetto nel 2013 ha vinto il Premio d’Architettura Alto Adige e la giuria si è così espressa: «La chiesa, situata in un quartiere di nuova costruzione, si presenta come una cittadella articolata in volumi semplici e spazi ordinati e sereni. Le antiche figure della piazza, del sagrato, della chiesa, delle opere parrocchiali e della canonica sono articolate con una nuova rigorosa sintassi. Se in antico un recinto generava lo spazio sacro, identificando un cosmo separato dal caos, ora il recinto si apre alla città nuova, accogliendola al suo interno. La «croce di vie» idealmente segnata nel nuovo quartiere si trasforma nella trave a croce che separa e sostiene i quattro corpi della chiesa. Le norme liturgiche regolano la successione e compresenza degli spazi dell’edificio sacro (la chiesa), mentre le norme del disegno urbano regolano la successione dei corpi disposti in un delicato equilibrio. Tutto il complesso si presenta fortemente radicato in terra e contemporaneamente aperto verso il cielo. La luce proveniente da aperture diversamente dislocate nella chiesa accentua i fuochi liturgici e indirizza lo sguardo dei fedeli uniti al celebrante. La corte è una grande aula all’aperto e insieme un pronao e un sagrato. Le opere d’arte e gli arredi si integrano all’architettura con discrezione. Il silenzio dell’arte e architettura è disposto ad accogliere la parola e il sacro. L’edificio delle opere parrocchiali è uno spazio civico. La residenza del parroco è una casa con al piano terra spazi per il lavoro. I volumi mantenuti “volutamente modesti, chiaramente composti e a misura d’uomo” (come scrive il progettista) si presentano all’esterno con superfici lapidee con un disegno perfetto ed una sapiente realizzazione. Sulla grande trave a croce poggiano, su supporti metallici, i parallelepipedi di diversa altezza. I vari dispositivi tecnici raccontano la sapienza dell’architetto e dei costruttori sommessamente (senza inutili esibizionismi)». (2) Il programma iconografico utilizza il linguaggio dell’astrazione, il colore, la luce e i suoi giochi di riflessione. L’architetto in questo caso ha progettato anche i luoghi liturgici, secondo una prassi qui meno diffusa. Possiamo definirlo un progetto di architettura altoatesina? Rispondiamo con le parole di Carlo Calderan da un editoriale di Turris Babel: «Da questa sala di disegno collettiva [il laboratorio comune dell’architettura sudtirolese] emergono alcuni atteggiamenti progettuali condivisi, una sorta di canone in fieri. Una propensione storica a parlare in dialetto.[…] Per dialettale non s’intende quindi un’architettura vernacolare, ma un atteggiamento antidogmatico, la capacità di accettare le imperfezioni e le semplificazioni che ogni traduzione genera. L’architettura altoatesina sembra refrattaria al minimalismo, sia nella sua austera variante grigionese, sia in quella astratta del Vorarlberg, ama lo splendore delle superfici riflettenti, o il fascino di quelle dipinte, profonde ed inafferrabili.[…] L’architettura in Alto Adige ama il pieno, il peso, il muro, a materiali artificiali ed inodore preferisce quelli in grado di svelare il proprio processo produttivo». (3)
Note
1.C. Romeo, Alto Adige/Südtirol. XX secolo. Cent’anni e più in parole e immagini. Società, politica, economia, cultura, costume, personaggi di un territorio plurilingue e di frontiera, dall’Ottocento ai giorni nostri, Bolzano, Edizioni Raetia, 2003, 366.
2.A. Natalini, A. Simon, T. Vack, Parola alla giuria, in «Turris Babel» 94 (2013), 27.
3.C. Calderan, In oder aus Südtirol, in «Turris Babel» 80 (2009), 2.
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