Homo Viator. Una mappa artistica e spirituale per il Giubileo
Film e letture in preparazione al cammino
Film e letture in preparazione al cammino
La Biblioteca Diocesana Luciano Monari propone una selezione di letture e un film, a cura di Vera Bugatti ed Eleonora Silvestri.
Sono stati scelti cinque libri e un film che offrono spunti preziosi per intraprendere il cammino con il piede giusto.
Questi contenuti sono strumenti che possono ispirare, pensati per accompagnare il viaggiatore non solo nello zaino, ma soprattutto nel cuore.
Tra racconti di fede, esperienze di pellegrinaggio e percorsi di formazione, le opere selezionate offrono un’occasione per riflettere, prepararsi e lasciarsi guidare lungo un viaggio interiore e spirituale.
Guia Risari, Il viaggio di Lea; illustrazioni di Iacopo Bruno, Einaudi ragazzi 2016
A che serve, nonno, essere felici, se dopo si sparisce? E con noi, la vita, i nostri progetti…
Lea è una ragazzina di dodici anni che non ha accettato la morte dei genitori e vi si ribella con un lungo periodo di ostinato silenzio da cui riesce ad uscire solo grazie a Porfirio, il gatto che le regala il nonno.
Stanca di non riuscire a trovare una spiegazione alla sofferenza e alla morte, nemmeno nel tenero affetto di cui la circonda nonno Obes, Lea capisce che è giunto il momento di lasciare la sua casa e mettersi in viaggio per affrontare le sue difficili domande e cercare direttamente le risposte ovunque si nascondano.
Una notte parte, portando con sé, oltre al suo gatto parlante, soltanto poche cose. Ha un valido motivo per intraprendere il cammino, anche se ignora dove la condurrà, ed è fiduciosa di fare incontri belli e di poter contare sulla ospitalità delle persone.
Il viaggio di Lea è un racconto di formazione in cui la protagonista cresce nella consapevolezza di sé e del mondo attraverso un viaggio che la porterà alla scoperta di tante diverse umanità e modalità di ricerca del significato della vita. Le avventure che vivrà avranno un sapore magico e metaforico e la condurranno ad una serie di incontri bizzarri ma profondamente umani, ognuno dei quali le regalerà una personale lettura dell’esistenza.
Hans il vagabondo, che indossa abiti pesanti nonostante il tepore primaverile perché uomini diffidenti di un uomo che non ha casa gli hanno rubato il carrello in cui li riponeva, le spiega che tra le cose non c’è relazione e ciò che conta è la nostra risposta agli eventi casuali che ci capitano. Mizel, un’indovina appartenente al mitico Popolo degli Animali, rappresentazione del popolo Rom, e che parla coi morti, prevede il suo futuro incontro con la Morte, la nonnina con gli occhi di un ruscello. La vecchia Maia, nata dalla Terra, le insegna che non dobbiamo pretendere una risposta unica alle nostre domande ma che è necessario mettere insieme i pezzi.
Ma l’incontro forse più sconcertante per Lea, e noi con lei, è quello con Engel Salsman, di professione killer, che la ragazza incontra mentre in un laghetto si sta lavando gli abiti sporchi di sangue. Engel è un assassino che si rifiuta di uccidere donne e bambini e che bada bene che le sue vittime non soffrano né abbiano paura. A Lea Engel, che si porta dentro il vuoto scavato dalle anime in pena che lo tormentano coi loro lamenti, illustrerà la strategia del filo d’erba che per svilupparsi deve spingere, crescere, dirigersi verso la luce con tanto sforzo perché di facile al mondo c’è ben poco e quel che c’è, a volte, è fatto solo per distruggere, come le armi.
La storia di Lea è a lieto fine e si concluderà col suo ritorno a casa. Ma il suo viaggio, introspettivo e reale al tempo stesso, l’avrà cambiata in profondità, conducendola a scoprire risorse che non sapeva nemmeno di avere. In fondo, come le aveva detto Thea, la custode del cimitero incontrata durante una sosta del cammino e che le aveva mostrato come si possa combattere la morte attraverso la perfezione del gesto culinario, se cerchi delle risposte alle tue domande, se vuoi trovare un rimedio alla morte, è perché sei un’inguaribile ottimista.
Il viaggio di Lea è un testo dedicato ai ragazzi ma la scrittura lieve e poetica di Guia Risari, traduttrice, filosofa e autrice anche di letteratura dell’età evolutiva (o secondo la sua stessa definizione “letteratura delle origini” perché in essa si affronta tutto) dimostra che se un libro è buono, è buono per qualsiasi lettore e che i grandi interrogativi che assillano l’uomo talora si aprono ad una nuova prospettiva se visti con gli occhi dei piccoli.
Hermann Hesse, Il pellegrinaggio in Oriente, Adelphi 1993
Pubblicato nel 1932, questo romanzo breve racconta del cammino che ogni essere umano dovrebbe intraprendere verso sé stesso.
La vicenda è narrata, a molti anni di distanza, da un enigmatico musicista tedesco, H.H., accompagnato da una misteriosa Lega di pellegrini, che non possiedono memorie, né oggetti, né diari di quel singolare viaggio.
Il pellegrinaggio è considerato nella sua tenace dimensione simbolica, dove protagonisti assoluti sono la visionarietà e il sogno, l’invenzione e l’esplosione di uno spirito che, in fuga dalle logiche di un presente mortificante, pervenga a territori salvifici: un nomadismo radicale verso una dimensione altra della realtà, non meno vera, seppur invisibile, della realtà stessa. Non un viaggio reale, quindi, ma un atteggiamento spirituale, un desiderio di evasione, più che mai vivo in Europa durante i travagliati anni Trenta, che sfocia in una narrazione surreale (la copertina della prima edizione tedesca venne illustrata da Alfred Kubin).
Un viaggio che non ha inizio né fine ma percorre il tempo e lo spazio a suo piacimento, facendo di molti personaggi storici i compagni di viaggio, un cammino doverosamente in solitaria che non in realtà mai in solitudine (vi si incontrano Klingsor, Brentano, Mozart, Lao Tze, Platone, Senofonte, Pitagora, Alberto Magno, Don Chisciotte, Baudelaire).
Ricostruire questo paradossale pellegrinaggio si rivela però difficilissimo, al punto da chiedersi se l’uomo nutra una doppia fame: di esperienze e di oblio. L’esistenza somiglia sempre più a un gioco di specchi. Influenzato dalla psicologia analitica, lo scrittore agisce infatti come un profeta che svela una realtà apparentemente sfuggente, la quale invece è un potente mezzo pedagogico, un duro e necessario atteggiamento per dissolvere le tenaci resistenze al rischio radicale della vita.
Hesse racconta quindi un viaggio onirico il cui obiettivo è l’unificazione di tutti gli spiriti e nel quale l’anima ha una sua morale, che si contrappone determinatamente a quella comune: non insegue vantaggi, ma vita piena, cerca rischio, consapevolezza, trasformazione. Cita infine i versi del poeta tedesco Novalis per affermare che, per quanto il nostro cammino possa condurci lontano, la direzione è sempre verso casa. Andare porta con sé il tornare.
“Non camminavamo soltanto attraverso spazi, ma anche nei tempi. Andavamo in Oriente, ma andavamo anche nel Medio Evo o nell’età dell’oro”
“La mia felicità […] consisteva […] nello stesso mistero che costituisce la felicità dei sogni, stava nella libertà di vivere contemporaneamente tutte le cose pensabili, di scambiare per gioco il dentro e il fuori, di far scorrere come quinte il tempo e lo spazio”
L’essere pellegrino è la dimensione costitutiva di ogni cristiano.
Questa è la profonda convinzione che permea la vita della serva di Dio Catherine de Hueck Doherty, ampliamente illustrata nelle pagine di Strannik. Il pellegrinaggio che testimonia l’autrice non è metafora generica del viaggio della vita bensì la strada interiore che ogni uomo è chiamato a percorrere per incontrare il Cristo che dimora in lui. Ciò che lo muove, in qualsiasi luogo ed epoca, è la inconscia ricerca della sobornost, termine russo che indica l’unione con Dio, il ricordo del paradiso.
Singolare ed affascinante pioniera dell’apostolato laico, Catherine nasce a Nižnij Novgorod, Russia, nel 1896 in una agiata famiglia fortemente permeata dalla spiritualità ortodossa. All’età di 15 anni sposa il barone Boris de Hueck insieme al quale, per sfuggire alle epurazioni della rivoluzione bolscevica, emigra prima in Gran Bretagna, dove si converte al cattolicesimo, e quindi in Canada. Il matrimonio con Boris, segnato da grandi sofferenze e dalle costanti infedeltà del marito, verrà annullato nel 1943 e Catherine, che nel frattempo ha lavorato come lavandaia, commessa, bambinaia, domestica per provvedere a sé e al figlio George, viene assunta da una agenzia di conferenze, la Leigh-Emmerich Lecture Bureau.
Inizia per lei un intenso periodo di viaggi e di esperienze nuove; ciò nonostante avverte sempre più una profonda inquietudine in una terra che, a suo dire, ossequiava i ricchi e i protestanti anglosassoni. Un versetto del vangelo di Matteo la assilla in continuazione: se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua. Catherine interpreta queste parole come la sua personale chiamata al pellegrinaggio.
Venduti tutti i suoi beni, affitta una stanza nei bassifondi di Toronto e fino alla sua morte, avvenuta nel 1985, si spende in una attività di apostolato laico dalla parte di quanti reclamavano giustizia sociale che culminerà nella fondazione del movimento di preghiera e contemplazione Madonna House.
Nella sua esistenza Catherine è passata attraverso diversi stati di vita: rifugiata, migrante, moglie, madre single che hanno via via scolpito e definito la sua fede in Dio, fortemente caratterizzata dalla spiritualità del pellegrinaggio. Il pellegrino per eccellenza è Cristo, l’uomo che viaggiò dal seno del Padre al cuore degli uomini e, se non nasce dal desiderio fortissimo di unità con Dio, il pellegrinaggio è solo una mistificazione alla ricerca di obiettivi immaginari che, una volta conseguiti, sono rimpiazzati da altri obiettivi che a loro volta si riducono in polvere, lasciando l’uomo vuoto.
Il pellegrinaggio di cui parla la Doherty costituisce una sfida per i cristiani di ogni tempo perché non è indirizzato verso santuari o paesi nuovi da scoprire bensì ripercorre passo per passo il cammino, le orme di Cristo e la sua unica meta è il cuore di Dio. È il pellegrinaggio che crea pace per darla agli altri.
La causa di beatificazione di Catherine de Hueck Doherty, definita da Thomas Merton, che ne fu figlio spirituale, una donna con una voce forte, e forti convinzioni, e forti cose da dire, è stata introdotta nel 2000.
Alexis Carrel, Viaggio a Lourdes. Frammenti di diario. Meditazioni, Morcelliana 1980
Nel 1912 Alexis Carrel, giovane medico francese emigrato negli Stati Uniti, consegue il Nobel per la medicina grazie ai suoi lavori sulle suture vascolari e sulla coltura a lunga scadenza di tessuti viventi fuori dal loro ambiente che lo avevano condotto a perfezionare un nuovo metodo di sutura delle ferite profonde, scongiurando le allora frequenti e spesso fatali emorragie post-operatorie.
Ma l’evento dirimente la sua vita si era verificato qualche anno prima, nel 1903, quando Carrel sale sul treno che conduce in pellegrinaggio a Lourdes un gruppo di ammalati che dovrà assistere durante il viaggio. Porta con sé il suo ricco bagaglio di conoscenze scientifiche ed un aperto scetticismo nei confronti di quanto accade nei pressi del santuario ma non può rifiutare il favore al collega che gli ha chiesto di sostituirlo. Sul convoglio Carrel assiste Maria Bailly, una giovane affetta da peritonite tubercolare in fase terminale. Se guarisse quest’ammalata, sarebbe veramente un miracolo. Io crederei a tutto e mi farei frate!, confessa il medico ad un compagno. Mentre osserva i volti dei malati e dei loro barellieri che sfilano davanti a lui, Carrel, che da anni ha abbracciato la filosofia positivista, avverte una potente impressione che sfugge ad ogni spiegazione e che gli serra la gola e, dinnanzi alle piscine in cui stanno per immergere la agonizzante Maria, prorompe in una preghiera: come vorrei credere, con tutti questi disgraziati, che Voi non siete solo un’eletta fonte, creata dai nostri cervelli, o Vergine Maria. Guarite dunque questa giovinetta, ha troppo sofferto. E la cosa impossibile, il miracolo, accade!
Viaggio a Lourdes è il racconto autobiografico, pubblicato dopo la morte dell’autore nel 1944, di un pellegrinaggio non voluto che diviene invece percorso di liberazione da una visione riduttiva della razionalità, propria di certo positivismo e scientismo dell’epoca, per approdare ad una nuova percezione della realtà. Nel suo diario, Carrel scriverà: lo scopo della vita è la santità e non la scienza. Ma la santità non può, senza l’aiuto della scienza, organizzare e guidare la vita. Il compito della scienza è quello di permettere agli uomini di raggiungere la santità. Morirà nel 1945, dopo essersi dedicato interamente alla ricerca sul cancro e, per sua stessa ammissione, a ristabilire scientificamente i rapporti oggettivi tra spirituale e materiale dimostrando così la veracità del Cristianesimo e il bene da esso compiuto.
Clarel, una delle opere meno conosciute di Melville e probabilmente la più criptica, scritto in quasi dieci anni e pubblicato a spese dell’autore nel 1876, apparve postumo in edizione inglese solo nel 1924.
Si tratta di un epos gnostico di difficile accessibilità – diciottomila versi suddivisi in centocinquanta canti, è il poema più lungo della letteratura americana – denso di allusioni e significati esoterici (la traduzione è quella di un esperto in materia come Elémire Zolla).
Il poema-diario venne ispirato da un viaggio in Palestina compiuto da Melville vent’anni prima, concepito come una sorta di terapia per sanare uno stato di prostrazione fisica e psicologica che aveva colpito l’autore durante e dopo l’immane sforzo della scrittura di Moby Dick e Pierre (opere “titaniche” destinate ad un umiliante insuccesso commerciale).
Il canovaccio viene fornito da un’opera di Benjamin Disraeli, il romanzo Tancredi. Clarel, studente di teologia, insoddisfatto degli insegnamenti dogmatici ricevuti in patria, decide di recarsi in Palestina, alle fonti del Cristianesimo e dei suoi luoghi d’elezione, alla ricerca del senso profondo dell’esistenza. Come i grandi eroi melvilliani, Clarel proverà a dare risposta alle grandi questioni del sapere e dell’amore, del rapporto tra fisico e metafisico, della verità e del senso ultimo della vita. Le riflessioni del protagonista sul contrasto tra fede e ragione, religione e scienza, anticipano tematiche della sensibilità contemporanea, evocando scenari storici e vissuti dove comunismo, Chiesa di Roma e liberalismo si contrapposero e soprattutto anticipando la visione della futura società di massa, che tanto preoccupava l’autore.
L’opera è forse il culmine più angoscioso raggiunto dall’autore il quale, fedele a uno gnosticismo sofferto, esprime in poesia tutto il dramma di una ricerca irrisolta.
FILM: Ogni cosa è illuminata, regia di Liev Schreiber, USA 2005
Trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Jonathan Safran Foer, ispirato alla vicenda personale dell’autore, che nel 1999 partì per l’Ucraina facendo ricerche sulla sua famiglia di origine.
Il viaggio rocambolesco di un ebreo americano alla ricerca di Augustine – la donna che potrebbe aver salvato suo nonno dai nazisti – accompagnato da personaggi iconici: un coetaneo del posto, Alexander Perchov, fondatore dei “Viaggi Tradizione”; suo nonno, il quale, a dispetto di una cecità psicosomatica, fa da autista; una cagnetta puzzolente chiamata Sammy Davis Jr Jr, in onore del misterioso cantante preferito del capofamiglia.
Rispetto al romanzo, nel film manca l’altra metà della storia, quella surreale dei capitoli alternati, una tragica e farsesca saga ebraica attraverso la quale Jonathan ricostruisce, sul filo della memoria familiare, le vicende di un villaggio nato nel Settecento e quasi totalmente cancellato dai nazisti.
La pellicola è un gioiello, un’opera sulla necessità della memoria in un modo che sta perdendone il senso, sull’importanza del ricordo che illumina oggetti inanimati riportando in vita le persone che li avevano posseduti. Il racconto di questa avventura, comica e al contempo straziante, diventa un viaggio caparbio, fisico ma anche spirituale, verso luoghi che non esistono più, attraverso verità dolorose e nascoste, sentendo la necessità di ritrovare e reinventare di continuo il passato per illuminare il presente.
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