Architetture e progetti ecclesiali contemporanei: la diocesi di Bolzano-Bressanone
La “modernità” alla vigilia e a cavallo del Concilio Vaticano II
La “modernità” alla vigilia e a cavallo del Concilio Vaticano II
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La prima parrocchia “italiana” edificata a Bolzano fu quella della chiesa di Cristo Re dei domenicani, nel 1940, opera dell’architetto Guido Pellizzari e, l’anno successivo, venne posata la prima pietra della chiesa di Don Bosco nel quartiere delle “Semirurali” (quartieri realizzati durante il fascismo per l’immigrazione di famiglie contadine dal Trentino, Veneto e Friuli Venezia Giulia). Nell’allora quartiere Littorio, costruito nel 1935 tra le vie Torino e Dalmazia per accogliere i primi immigrati operai, nel 1950 si sente la necessità di costruire un complesso parrocchiale che possa fungere da luogo di incontro tra persone che non avevano una storia comune; è una chiesa per la popolazione di lingua italiana che giunge da altre regioni, in un quartiere povero. Il progettista, l’ingegner Paolo Candelbergher utilizza un impianto comune alle molte chiese costruite in quegli anni. L’assetto liturgico non mostra particolari novità se non la presenza di due amboni (segnati con l’abbreviazione “amb.” nei disegni originali).
Nel 1950, tra le baracche del disagiato quartiere ai Piani, detto “Siberia”, abitato da molti ferrovieri – quindi immigrati da altre regioni italiane – il parroco don Vittorio Franzoi, originario di Masi di Vigo in val di Non, celebra in una chiesa-capannone. La decisione di affidare il progetto per la nuova chiesa a Marcello Piacentini non fu di certo una scelta priva di conseguenze. Nel volumetto pubblicato per i quarant’anni della parrocchia, nelle parole dell’ingegner Giorgio Pasquali, si legge l’incomprensione per la scelta di Piacentini e che il progetto «ebbe grandissime difficoltà a venire approvato […] certamente per il nome del progettista e per le reminiscenze che rievocava». (1)
Il contesto politico e sociale di questa decisione è decisamente bollente. (2) Sono gli anni del dopoguerra; il patto De Gasperi-Gruber del 5 settembre 1946 (accordo di Parigi) aveva posto fine alle speranze di un ritorno del Südtirol all’Austria, aveva permesso il rientro degli optanti, e aveva fondato l’autonomia della regione Trentino-Alto Adige. Ma tutto ciò non poteva non avere delle conseguenze. Il vescovo-principe di Bressanone, Johannes Geisler, si espose in modo esplicito a favore del ritorno all’Austria e aiutò anche finanziariamente la Südtiroler Volkspartei, il nuovo partito del gruppo linguistico-culturale tedesco che era guidato in questo momento dai Dableiber, (coloro che restano, in opposizione agli Optanten, coloro che optano per il Reich). Nel 1951, papa Pio XII abolisce il titolo di vescovo principe al titolare della cattedra di Bressanone e nel 1952 viene nominato in quella sede il trentacinquenne Josef Gargitter. Se per il neovescovo era possibile trovare una via di pacificazione mediante l’autonomia regionale, gran parte del clero sudtirolese non era della medesima opinione. Tra questi, il canonico Michael Gamper (l’organizzatore delle Katakombenschulen nel 1925), nel 1953, usò per primo il termine Todesmarsch (marcia della morte) per indicare il destino dei sudtirolesi che rischiavano di sparire con l’immigrazione italiana verso l’Alto Adige. Nel 1957, la Südtiroler Volkspartei, unita a un gruppo di Optanten, decise di opporsi al governo regionale guidato dalla Dc. La decisione di un nuovo piano per l’edilizia popolare a Bolzano, che avrebbe favorito l’immigrazione italiana, fu l’occasione per dar luogo alla protesta che coincise con la grande manifestazione popolare a Castel Firmiamo (17 novembre 1957), in cui venne lanciato lo slogan Los von Trient (via da Trento), cosicché la Svp passò all’opposizione in consiglio regionale nel 1959 e la Dc di Trento, nel formare un nuovo governo regionale, ebbe l’appoggio del Movimento Sociale Italiano. Tra l’11 e il 12 giugno del 1961 vi fu la cosiddetta Notte dei fuochi, cioè 37 attentati ad altrettanti tralicci elettrici organizzati dal gruppo Befreiungsausschuss Südtirol (Comitato di liberazione del Sudtirolo). Progetto (1955), posa della prima pietra (1957), apertura al culto (1961) della chiesa di S. Giuseppe e progetto (1951), posa della prima pietra (1955) apertura al culto (1956) della chiesa di Regina Pacis, accadono tra queste tensioni per di più, nel primo caso, con una chiesa progettata da un architetto italiano legato al fascismo che a Bolzano aveva costruito l’arco della Vittoria, opera che doveva essere il simbolo per eccellenza di quella monumentalizzazione del territorio. (3) Poco più a sud della chiesa di San Giuseppe, al margine del quartiere Piani, confinante con la riva destra dell’Isarco, vi è la casa natale del beato Josef Mayr-Nusser. Ma l’opera di rinnovamento liturgico che egli mise in atto con la rete di ben 72 gruppi di Azione cattolica in altrettante parrocchie, che si riunivano in segreto per ovviare i divieti, (4) qui non giunse.
Nel 1957 il Piano Regolatore Generale di Bolzano viene affidato al gruppo composto dall’ing. Armando Ronca, l’ing. Giordano Sabbadin, l’arch. Guido Tancredi Pelizzari, l’arch. Alois Plattner e l’arch. Wilhelm Weihenmeyer. Il criterio di base è quello del decentramento delle funzioni del centro storico di Bolzano e del loro spostamento in nuovi quartieri che vengono dotati di strutture quali scuole, chiese, aree verdi, parcheggi, nuovi negozi e mercati. Nell’area più a ovest del quartiere Don Bosco, sviluppo dell’ex Rione Dux di case semirurali, Ronca è incaricato del progetto di una nuova chiesa. Anche questa è una chiesa per la comunità di immigrati italiani, ma è un progetto che si stacca dalla tradizione. La posa della prima pietra è nel 1963, l’anno di chiusura di Sacrosanctum Concilium, ma attende l’inizio vero e proprio della costruzione nel 1967, quattro anni dopo la pubblicazione dell’istruzione Inter oecumenici e tre anni dopo che la chiesa si trova sotto la giurisdizione della neonata diocesi di Bolzano Bressanone. In questo progetto di rottura col passato prevale la forma, vi è un’idea scultorea in cui evidenti sono gli influssi di Le Corbusier e di Michelucci, ma è anche uno dei primi tentativi in Sudtirolo di mettere in opera la riforma liturgica.
Note
1.Parrocchia S. Giuseppe, Piani di Bolzano. Pfarrei St. Josef, Bozner Boden. 40 Anni-Jahre. 1957-1997, 18.
2. Per la sintesi storica si veda, E. Curzel, Storia della chiesa in Alto Adige, Padova, Edizioni Messaggero, Facoltà Teologica del Triveneto, 2014 (Sophia, Didaché/Manuali- Storia delle chiese locali, 1), 130-134: e C. Romeo, Alto Adige/Südtirol. XX secolo. Cent’anni e più in parole e immagini. Società, politica, economia, cultura, costume, personaggi di un territorio plurilingue e di frontiera, dall’Ottocento ai giorni nostri, Bolzano, Edizioni Raetia, 2003, 252-291.
3. C. Romeo, Alto Adige/Südtirol. XX secolo, op. cit., 141.
4. F. Schatzer, Einheit in der Vielfalt, in Die Katholische Jugend in Südtirol. Einblicke in mehr als 100 Jahre kirchliche Jugendarbeit, Hrsg. von Südtirols Katholischer Jugend (SKJ), Bozen, Athesia, 2021, 39.
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